E’ stato un fine settimana diverso, una fuga di due giorni da Milano per rialzare il morale e assaporare una cena tipica dello Sri Lanka in un paesino perso nella nebbia e nella pianura ancora innevata del tortonese.
La sorpresa non è stata tanto nella cena, che aveva indubbi meriti e ben valeva la gita invernale, quanto nell’incontro con il giovane amico Armando, giovane forse per il nonno Talpone, ma ormai vicino ai quarant’anni, fuggito dalla grande città e da impegni per lui non più sostenibili.
Le fughe purtroppo non risolvono mai i nostri problemi, così lui si ritrova ancora tormentato, esule, squattrinato, in quelle zone aspre, magari ricche di soldi, ma avare con i poeti, gli artisti e i sognatori.
Armando è un giovane geniale, spiritato, rabbioso, che ha spesso smarrito la strada, ma che riesce a mantenere una disarmante amabilità con i poveri, gli esclusi, gli infelici.
Nonno Talpone l’ha visto crescere, lo considera quasi un figlio, discolo, prodigo, amato e inutilmente consigliato, ma come potrebbe dare validi suggerimenti proprio lui, che se non avesse trovato nella sua strada un angelo, sia pure talvolta prussiano, ora forse sarebbe insieme al suo giovane amico, a vagabondare nei bar, a discutere di utopie, bevendo generosamente grappini e calici di vino, cercando di allontanare in un fondale sfumato la realtà delle sue debolezze e dei suoi sogni svaniti.
Ma ora Armando si presenta sorridente e allegro, accompagnato da un grosso, flemmatico setter inglese, dal lungo mantello puntinato di grigio.
Lo chiama Max, questo cane che mostra uno sguardo stanco, triste, alla Buster Keaton.
Gli resta accanto docile e paziente, anche se appare spaventato da ogni persona e rumore, ma quando gli parli lui alza gli occhi con uno sguardo acquoso e dolce.
Nonno Talpone in fondo si sente un felino, perciò con i canidi si mostra gentile, rispettoso, ma li tiene a giusta distanza.
Ma questo animale così timido e timoroso lo stupisce e lo commuove, ha un aspetto troppo rassegnato e doloroso.
Mentre parla con l’amico non può tenersi dall’affermare “ Ma quale Max, questo si deve chiamare Tristezza !”
Il cane leva la sua testona pelosa, alza gli occhi e il ciglio destro, non sembra offeso, anzi sembra riconoscersi in quel nome.
A tavola, con il bestione accanto ai piedi, Armando spiega che l’aveva notato abbandonato in una orrenda gabbia di cemento, presso un casolare tra le colline, i padroni non se ne curavano quasi più, ma non volevano cederlo, come non si butta via una cosa che non serve, ma che in futuro potrebbe essere ancora in qualche modo utile.
Era parte della loro roba, come una capanna cadente, un campo incolto, un aratro arrugginito.
Per un anno Armando l’ha nutrito di nascosto, l’ha richiesto ai proprietari senza farsi vedere troppo interessato, ormai conosce l’animo di quei contadini, se vuoi qualcosa allora non l’avrai mai, anche solo per dispetto e per spregio.
Poi alla fine, dopo tante parole dette a caso, loro hanno concesso quel vecchio cane, quasi come per liberarsi di un fastidio.
Armando l’ha portato a casa, lavato, curato, nutrito e soprattutto l’ha amato, con modi teneri e gentili che il povero Tristezza non aveva conosciuto nei dieci anni precedenti.
Dopo quasi tutta una vita in un’orrenda schiavitù, ora ha tutte le ragioni di mostrarsi timoroso di ogni cosa che lo circonda.
Per scherzare il nonno gli prende il muso e gli dice “ Sai, Tristezza era un famoso pistolero nel Far West, un killer implacabile, dallo sguardo d’acciaio, forza, fai vedere chi sei Tristezza !”
Sembra comprendere ogni parola, ma pare anche che voglia rispondere che lui sarà il nuovo compagno, l’amico fedele, l’angelo di quel giovane figliol prodigo che non vorrà mai ritornare a casa.