LA FAVOLA DEL GATTO AGNELLINO


C’era una volta un vecchio signore dai pochi capelli bianchi, che per la miopia e la cataratta ci vedeva poco assai, tanto che tutti lo chiamavano nonno Talpone.
Lui aveva anche un gatto bianco e nero a larghe chiazze, con una lunga coda nera che finiva in un candido fiocco di peli, tanto affettuoso da essere soprannominato Coccolone.
Loro due stavano sempre insieme e si facevano buona compagnia, teneri e complici come due ragazzini.
Il gatto, anche se poco più che cucciolo, era abbastanza impacciato nei movimenti, forse per stare al passo del suo vecchio padrone, che era goffo, sbadato e talpone.
Ma Coccolone aveva una passione segreta : gli uccellini che svolazzavano nell’aria sopra di lui.
Naturalmente non era abbastanza agile per arrampicarsi sugli alberi per cacciare nei loro nidi o veloce per catturarli a terra.
Si limitava quindi a guardarli golosamente da lontano, emettendo dei rauchi e sussurranti “ Mehè …mehè !”
Quando nonno Talpone lo scorgeva così accucciato a terra, con il bianco fiocco della coda che scodinzolava freneticamente, si metteva a ridere e gli diceva paternamente: “ Sembri proprio una pecorella ! Però guarda che devi fare Beeh, beeh. Ripeti con me : beeh, beeh !”
Il gatto girava il capo all’insù incuriosito e il vecchietto gli ripeteva cantilenando : ”Beeh, beeh !”
Queste scenette continuarono per molto tempo ed era buffo vedere il gatto Coccolone e il suo padrone che belavano insieme sonoramente.
Sembra che il giovane scolaro alla fine avesse imparato così bene dal suo maestro da belare proprio una pecorella.
Nonno Talpone a questo punto pensò che travestito come un piccolo agnello in un prato il suo gatto avrebbe potuto ingannare gli uccellini che gli si sarebbero avvicinati fiduciosi.
Però c’era un problema, come fare per le macchie nere del suo pelo?
Pensa e ripensa, alla fine un giorno entrò in camera da letto e di nascosto scucì un cuscino di lana e ne prese una manciata poi, con il gatto al seguito, andò in cucina dove la moglie aveva steso sul tagliere la pasta fresca delle tagliatelle, ricoperte di bianca farina.
Ne prese un’altra manciata e le cosparse insieme ai fiocchi di lana sul pelo dell’amato Coccolone.
“ Ora usciamo sul prato fuori casa e fingi di essere un agnellino, vedrai quanti uccellini riuscirai a catturare !”
Il gatto, fiducioso, cautamente si accucciò nel verde, miagolando il suo belato come meglio poteva.
Mentre il nonno si nascondeva dietro un cespuglio. un corvo, appollaiato su un ramo vicino, lo vide dall’alto e si tuffò sul prato.
Non per fare compagnia al preteso agnellino, ma per beccare golosamente le fresche tagliatelle che lo ricoprivano.
Il gatto, beccato ferocemente sul corpo, emise un grido furibondo e schizzò via, inseguito dal corvo affamato, a sua volta rincorso da un affannato nonno Talpone.
Presto a questa staffetta schiamazzante si unì la moglie che, visto il disastro nella sua cucina, li cacciava urlando con una scopa in mano, dando piattonate da tutte le parti come un mulino a vento.
In seguito il gatto Coccolone non cercò più di belare come un agnellino.
Nonno Talpone rimase a bocca asciutta di tagliatelle per tre mesi.
Il corvo non ebbe più fiducia nella pasta fresca che giacesse su un gatto invece che su di un piatto.
E la moglie ?
La moglie si arrabbiò, sospirò, poi si mangiò soddisfatta due bei piatti di tagliatelle al ragù ricoperte da una nuvola di parmigiano.

IL CONTA STORIE


Lunedì in servizio di reperibilità urgente.
Il piccolo nipote di sette anni, nome in codice Polipetto, ha il mal di pancia e la febbre, i nonni corrono subito come pronto soccorso.
Lo troviamo sdraiato sul divano, con un pigiamino azzurro, seppellito sotto una pesante coperta blu, gli occhioni più grandi che mai e un vocino sommesso e lamentoso.
La mamma esce al lavoro e in quello stato decido che non si può giocare come al solito.
Accendo la televisione, i cartoni animati lo annoiano ben presto, eppure al nonno sembrano così interessanti.
Lui afferra il telecomando e, dopo un giro veloce ed ossessivo sui vari canali, si ferma su un replay delle partite di calcio della serie A.
Ovviamente si vedono quasi solo quelle della Juventus, con gran fastidio del nonno.
I borbottii e i reclami gli fanno cambiare canale fino a trovare una partita di hockey sul ghiaccio in differita, tra i Rangers di New York e gli Edmont Oliers.
Giocatori palestrati velocissimi e violenti, i colpi di mazza e gli scontri anche fisici sono continui.
Il nonno vorrebbe ritornare su Paperino and company, ma Polipetto saltella sul divano, si agita, urla grida di incoraggiamento.
Sembra guarito, i maligni direbbero che il pericolo di andare a scuola è ormai lontano.
A fine partita lui afferra la canna di un fucile giocattolo e con un pallone da calcio scivola qua e là come un forsennato, urlando punteggi clamorosi: è diventato il capitano dei Rangers.
Il nonno si è prudentemente appollaiato sul divano, l’anca dolorante sconsiglia ogni scontro agonistico.
Dopo il pranzo il Polipetto si è calmato, ha messo a posto nell’astronave la principessa Leia che il nonno ha trovato dopo un giro di telefonate e trattative con altri nonni, ma ora si annoia.
Che fare?
Recuperiamo il mazzo di carte del Conta Storie, un regalo che avevamo fatto a Natale.
Vengono distribuite due carte a testa, con immagini varie : un bizzarro gnomo in cammino nella notte, una ammaliante principessa nel suo vestito ricamato, un fiume tumultuoso che scorre tra i dirupi, l’interno di una misera capanna con famigliola affamata, un cofano aperto ripieno di gioielli.
Ognuno deve guardare le sue carte e commentarle, il racconto prosegue con il vicino che osserva le proprie figure e inventa nuovi episodi.
E’ un’esperienza piacevolissima e stranamente facile quando si è con i bambini, si passa velocemente un’ora d’incanto.
Il Polipetto ne è entusiasta, appena finito il gioco cerca un quaderno e una penna, iniziando a scrivere su un paio di fogli una storia tutta sua.
Alla fine ce la legge con il suo vocino delicato e cantilenante, io osservo lo scritto: ha pochissime cancellature ed un solo piccolo errore d’ortografia.
“ E’ la terza fiaba che scrivo – afferma orgoglioso – la dedico a mia mamma e al mio papà “
I nonni naturalmente lo guardano commossi, scusateli, come tutti alla loro età hanno il cuore tenero, nonno Talpone addirittura è rincuorato, ha trovato un successore ed un erede.
Gli auguro lunga vita e un infinito giardino di meravigliosi racconti, per lui e per voi.

UN’ARCA COME TANTE


Lo so, mi chiamano Talpone, per via dei miei baffi bianchi a spazzola, il testone pelato, la vista scarsa nonostante i grossi occhiali bifocali, i movimenti tardi e impacciati, sempre con l’aria di una grassa talpa che sbuca a sorpresa da una buca del terreno, mostrando una curiosità stupita verso il mondo esterno, come se fosse stato creato dal nulla qualche momento prima.

Devo anche ammettere che mia moglie mi chiama spesso per afferrare oggetti e stoviglie posizionate sui piani alti, come se fossi una giraffa.

Quando andiamo insieme a fare la spesa al supermercato o nei negozi, come questa sera dopo aver accudito i piccoli, io sono l’addetto al trasporto delle pesanti borse degli acquisti, con le quali mi trascino fieramente per i tre piani a piedi, come un docile somarello.

Lei invece, la mia Istrice Fascinosa, se affaticata e nervosa sa trasformarsi in un piccolo drago sbuffante nuvoloni neri che promettono tempesta e lanciare getti di fuoco ustionanti.

Quando però incontra gli altri maschi di casa, i due figli e gli adorati nipotini, sembra sciogliersi in una marea di dolcissimo miele, con l’aspetto di una mansueta mamma cerbiatta.

Il nostro saltellante e squillante Scoiattolino e suo fratello, il carezzevole Polipetto, sono due amorevoli cuccioli che sanno donarci una continua allegria, quasi fossero novelli Dioscuri che guariscono da ogni melanconia o piccolo malanno, a cui non si può non perdonare anche le poche volte che per stanchezza ci fanno disperare.

La loro madre, quando a sera torna a casa dal lavoro, entra quasi in punta di piedi, con un tremulo sorriso timido e stupito, come un piccolo uccellino che si posa su un ramo con un breve frullo d’ali, quasi avesse timore di aver sbagliato nido.

Alla sera tardi arriva finalmente il papà Leone, il re della foresta legale della sua banca, però appena entrato lascia fuori dalla porta la sua grinta sbrigativa e irritata, forse anche la sua criniera, perché i suoi piccoli cuccioli gli si buttano addosso quasi fosse il loro pelato orso di peluche.

Sono purtroppo lontani gli zii inglesi, uno, nonostante la sinistra fama di Martellus Deus, viene sempre calorosamente accolto e da tempo benignamente chiamato “ Il Pollo Inglese”.

Il marito, ormai foltamente barbuto, forse per nascondere in qualche modo la placidità del suo viso, sta sempre più assomigliando ad un grande Tasso, ovviamente di razza irlandese.

Questa è la nostra piccola Arca di Noè, che galleggia fortunosamente sulle acque tumultuose della vita, insieme a tante altre piccole arche, di ogni taglia, colore e fede.

Tutte aspettano che le acque turbolenti si calmino, mandando fuori di tanto in tanto, come sbuffi di fumo, i nostri pensieri come fossero delle  colombe di pace e di serenità, perché non dobbiamo mai perdere la speranza di un mondo meno funesto.

UN FILO ROSSO VINO


Da bambino, avrò avuto circa 8 -9 anni, restavo quasi sempre in compagnia di mia nonna Albina, un nome presago di quella che diventerà poi il grande amore della mia vita.

Mia nonna era adorabilmente dolce, affettuosa e paziente, nonostante l’amaro che la vita le aveva riservato, vestiva sempre con una semplice blusa grigio topo, che si intonava con i suoi lunghi capelli arrotolati in una voluminosa crocchia dietro la testa.

A me sembrava vecchissima, anche se era nei suoi sessant’anni, ma allora la gente non aveva la fissazione di apparire sempre giovanile ed esuberante sino al proprio funerale.

Lei amava raccontarmi, insieme a paurose fiabe di gnomi fatati e orchi sanguinari , le storie ed i fatti delle precedenti generazioni.

Ne ero affascinato e trascrivevo diligentemente su piccoli taccuini quadrettati da dieci lire questi fatti divertenti e curiosi che riguardavano persone che non avevo mai conosciuto.

Non vi è mai stata traccia di nobiltà nei miei antenati, né grandi imprese degne di memoria, posso dire tranquillamente di essere quasi orgoglioso di discendere da una miriade di operai, ferrovieri, tramvieri, merciai, pollivendoli, fiammiferai, sartine e semplici donne casalinghe.

Mio fratello maggiore invece da ragazzo amava passare per conte di casata decaduta e più avanti, dopo la sua morte  venne trovato uno stemma araldico che aveva avuto la dabbenaggine di acquistare.

L’unica traccia costante, un vero filo rosso che lega le generazioni  dei miei antenati è stata, caso strano, l’amore per il vino.

Ai primi dell’ottocento un mio bisavolo era conosciuto come assiduo frequentatore di osterie più che del negozio di barbiere in cui avrebbe dovuto lavorare.

La numerosa figliolanza doveva quindi girare per le strade a vendere fiammiferi come nella pietosa fiaba che leggevo in gioventù.

Uno fortunatamente fu raccolto da un pastore evangelico, che lo adottò, lo fece studiare e gli insegnò la moderazione.

Con la spiacevole conseguenza che morì avendo bevuto troppa acqua nei fondali del Lago Maggiore.

Una sua sorella, finita all’orfanatrofio, fu poi adottata da una coppia caritatevole, imparò a lavorare come sarta, attività che trasmise a figlia e nipoti, visse allegra e amabilmente socievole sino ai novant’anni, bevendo moderatamente, ma con costanza, senza farsi mai mancare almeno un buon bicchiere di rosso Barbera a pasto.

Da lei è stata tramandata la tradizione, che personalmente apprezzo in modo incondizionato, di versare un’abbondante schizzo di vino robusto nel brodo bollente, creando un composto vivificante ed un ottimo rimedio contro raffreddori, dolori reumatici, stanchezza, sensazioni di gelo durante i mesi invernali.

Un altro mio nonno, che non ho mai conosciuto, ma che mi ha trasmesso il suo nome, era da tutti soprannominato “ El Noè “, non tanto per sapere biblico, ma perché sembrava aver scoperto lui la vite e i suoi dolci frutti fermentati, che gustava con abbondanti libagioni ogni sabato sera e ad ogni festività.

Ancora molti decenni dopo, quando a sedici anni in motorino mi ero avventurato nel paese in cui lui si era ritirato da pensionato, essendo capitato casualmente nella locale osteria per rinfrescarmi con un buon mezzolitro, fui apostrofato dai vecchietti presenti con sonori commenti “ Varda lì, el par propri el Noè !” ( Guarda quello sembra proprio il Noè)

Mio padre, forse come reazione alle esuberanze subite in gioventù, era un moderato, teneva comunque una cantina ben fornita, per la consolazione dei suoi figli, che la frequentavano con assiduità, quasi per dovere filiale .

Personalmente non potevo far sfumare una fama tanto ben meritata dal nonno, per cui mi sono sempre sforzato di farmi onore ed essere alla sua altezza, senza cadere nella dipendenza e con un certa dose di compostezza.

Certo gli anni passano, anche gli atleti più dotati non raggiungono più i primati della loro gioventù.

Così nonno Talpone dai tre litri a sera dei suoi vent’anni a militare, ora si è ridotto ad un paio di bicchieri a cena, magari con un bis a grande richiesta.

Però ora le vecchie osterie di Milano e nelle varie città hanno chiuso i battenti,  fioriscono solo le birrerie tedesche, i pub pseudo irlandesi, le enoteche chic, i bar delle happy hours, buona parte della  gente poi preferisce a darsi a cose più forti e pericolose.

Dove sono più i vecchi “ Ciucateè” gli ubriaconi di paese, quelli che con i loro lazzi facevano bonariamente divertire ?

E’ vero, i loro epigoni sembrano sopravvivere ancora alla televisione, stralunati e ben vestiti, a ciarlare e strillare nei comizi e alle varie tavole rotonde, mentre continuano ad arraffare con un crescendo parossistico e cleptomane, loro raccontano le stesse cose, le solite promesse mai mantenute di riforme, di piani di sviluppo, di svolte storiche, di tagli alle tasse, di posti di lavoro.

Questi non fanno ridere, anzi ci disgustano.

Forse dalla coca dovrebbero tornare al Barbera e al Lambrusco.

Lanciamo un bel referendum abrogativo ?

Niente paura, anche se lo vinciamo resterà lettera morta come i precedenti.

ANCORA BASTIANO E CETTINA


Le giornate di fine agosto si stanno accorciando, l’afa in centro Italia diminuisce leggermente, si godono gli ultimi giorni di riposo prima del ritorno in città per gli impegni consueti.

Ieri sera, seduti ad una grande tavolata in pineta con dei cugini umbri, mentre stavamo gustando svariati tipi di pizze casalinghe, abbiamo potuto ammirare la caduta di un asteroide luminosissimo che nello sfondo blu scuro della notte ha tracciato il suo lento arco di discesa verso una meta poco lontana.

Una anziana signora vicina a me azzardò la possibile discesa di un UFO, un’altra affermò che per fortuna l’enorme quantità di pizze preparate li avrebbero ben accolti e sfamati.

Non era certamente una stella cadente, né fortunatamente un aereo che precipitava al suolo, personalmente ho sperato ad un ritorno a terra di nonno Talpone, che mi sfugge da un mese.

Naturalmente ho tenuto per me la mia ipotesi, perché gli altri non sapevano chi fosse questo personaggio e volevo evitare spiegazioni che mi mettessero in imbarazzo.

Forse mi mancano dei bambini per potermi esprimere, o meglio per poter far ritornare il nonno scomparso.

Comunque oggi mettendo a posto delle vecchie carte ho trovato alcuni suoi appunti per storie che lui voleva scrivere in quel tempo felice, quando si svegliava alla mattina presto con una quantità inverosimile di idee e progetti brillanti, anche se forse sconclusionati.

Premetto che avrò qualche difficoltà a riprodurre il suo stile, vogliate scusarmi in proposito.

“La rossa bambina Aurora, per l’Anagrafe Aurora del Sol dell’Avvenire, continuò i suoi racconti con i nuovi amici Hanid e Pamock, mentre erano accosciati insieme presso il cancello del vetusto Asilo per piccoli rifugiati, lassù nella grande città del nord.”

“ Nel loro paese i giovani sposi Bastiano e Cettina continuavano la loro tranquilla esistenza, il primo lavorando al tornio vasi e oggetti di terracotta, la seconda con i mille impegni di casa, tra cui, non ultimo, l’affettuoso controllo del turbolento marito.

San Tortoro vegliava sempre sulla pace famigliare, persino le vecchie ubriacature con gli amici sembravano dimenticate.

Ma un sabato sera Bastiano appariva così stanco e immusonito che la buona Cettina, avendo lei stessa alle spalle una faticosa giornata di bucato  e volendo stare tranquilla, fu comprensiva e gli permise, tra mille raccomandazioni, di uscire e raggiungere l’osteria vicina per salutare gli altri maschietti e divertirsi insieme.

Se all’inizio Bastiano fu prudente, bevve qualche mezzo bicchiere qua, due chiacchere la e una partita a carte al tavolo vicino, poi passò alle caraffe di vino – bella forma vero ? l’ho fatta io mesi fa, con le mie mani !- con un crescendo allegro e vociante.

A tarda notte l’osteria chiuse i battenti, la compagnia si sciolse  a poco a poco tra abbracci e risate, Bastiano si mosse anche lui e, dondolando abbondantemente e incespicando spesso tra i sassi, riuscì in qualche modo a ritrovare il cancello della sua casetta.

Era una notte ventosa e una volta entrato nel piccolo cortile si trovò improvvisamente  di fronte ad una serie di fantasmi biancastri che ondeggiavano minacciosamente davanti a lui nel buio.

Ancora gli spiriti bastonatori ?

“ Eh no ! – farfugliò adirato Bastiano – adesso basta, vi arrangio io !”

Entrò di furia in casa, afferrò il suo schioppo da caccia e sparò due colpi di doppietta contro quei malvagi invasori, poi , stanco e soddisfatto, si buttò sul letto a russare rumorosamente.

Cettina, svegliata di soprassalto, si mise una vestaglia  e corse fuori, quasi scontrandosi con il marito e vide il suo bucato, compresi i grandi camicioni bianchi di lavoro del marito, sbrindellati e a pezzi dai pallettoni sparati.

Sospirò rassegnata, prese subito il fucile e lo buttò in un vecchio pozzo, per evitare futuri malanni.

L’indomani Bastiano quando si svegliò intorpidito e con un gran mal di testa, fu portato fuori in cortile da Cettina, con gran risate di scherno, per poter ammirare i risultati della sua bravata notturna.

“ Oh i miei camicioni nuovi – esclamò lui sorpreso e impaurito – per fortuna non li portavo addosso quando gli hanno sparato! “

 

BASTIANO, CONCETTA E SAN TORTORO


La rossa fanciulla Aurora, iscritta all’Anagrafe come Aurora del Sol dell’Avvenire, si mise comoda a gambe incrociate, al di là della cancellata dell’Istituto e iniziò a raccontare.

“ Al mio paese giù al sud avevamo molti tornitori di ceramica e terraglie, abili a modellare dalla creta ogni tipo di piatti, bicchieri, caraffe e orci, che rivendevano poi a poco prezzo ai commercianti che ogni tanto arrivavano con carretti e furgoni per farne incetta e rivenderli ai mercati di città.

Bastiano era un bravo giovane, abbastanza abile nel suo lavoro, però come tanti altri nei giorni festivi si recava all’osteria a giocare a carte e a ubriacarsi di vino.

Quando si sposò con la bruna Concetta, una bella ragazza vivace e allegra, sembrò dimenticarsi delle sue cattive abitudini, almeno durante i primi mesi di matrimonio.

Ma una sera, dopo aver ricevuto i soldi delle vendite, si unì agli amici a far bisboccia in una taverna, bevendo il forte vino locale, giocando e perdendo tutto il suo denaro.

Quando a notte inoltrata tornò a casa, ubriaco e rabbioso, di fronte ai rimproveri della moglie lui si mise a urlare ancora più forte e cominciò a picchiare Cettina.

Ma quella, agile come una gatta selvatica, dopo il primo schiaffone corse in cucina, soffiò sulla candela e afferrato il mattarello di legno per la pasta, gli rispose con una serie di bastonate precise e ritmate, iniziando nel contempo e gemere e a urlare come se fosse lei la mazziata.

Ora erano in due a gemere e a strillare di dolore, nel buio assoluto ben presto Bastiano finì a terra e prese a russare sonoramente.

Cettina allora si fermò, si assicurò che lui dormisse veramente e riaccese la candela, guardandosi allo specchio.

A parte un certo rossore per l’agitazione e un livido sullo zigomo sinistro per il primo colpo, non aveva subito molti danni.

Si sorrise compiaciuta, ne aveva date molte di più di quante ne aveva ricevute.

Si sciacquò con l’acqua fredda e andò a dormire tranquillamente nel suo letto.

L’indomani mattina presto, una volta controllato il marito che giaceva ancora a terra tramortito, russando come un vecchio mantice sconquassato, andò in cucina, si fece un buon caffè e valutò le varie possibilità di azione.

Poi con un pezzo di carbone e del rossetto si colorò il viso, le braccia e le gambe, come se fosse stata travolta da una mandria di bufali e aspettò tranquillamente il risveglio di Bastiano.

Quando lui più tardi si mosse, gemendo per i postumi della sbornia e per il dolore dei colpi ricevuti, anche Cettina iniziò a piangere e a lamentarsi, mormorando che, poverini loro, avevano la casa infestata dagli spiriti.

“ Ma quali spiriti – stentò a pronunciare Bastiano – io non ricordo bene, so solo che era buio e che ricevevo bastonate a grandinate !”

“ Proprio così, marito caro – affermò contrita Cettina, abbracciandolo stretto e facendolo gemere forte – tutto ad un tratto è venuto buio, ho sentito urla e colpi di bastone, sono tutta un livido come te”

“ Cosa possiamo fare allora ? – gorgogliò lui.

“Marito mio, l’unico rimedio è far togliere il malefizio e procurarci un talismano che li tenga lontani dalla nostra casa, tu riposati, dammi dei soldi, mi sacrificherò ad andare in città da una zingara chiromante, esperta in magie e sortilegi e troverò un rimedio sicuro.”

Bastiano si mise a letto dolorante, Cettina con il denaro andò in città, si fece un giro nei negozi, andò a sedersi al tavolino di una famosa gelateria e si gustò una squisita coppa  al limone, fragola e cioccolato, con tanta panna montata a mo’ di pennacchio.

Prima del ritorno comperò da un rigattiere una statuetta di un vecchio con il bastone da viaggio .

Quando entrò trionfante a casa, lei annunziò al marito che la maledizione  era stata tolta alla loro abitazione, bisognava solo continuare ad accendere un cero davanti alla statuina del loro santo protettore.

“ Ma sei sicura che non torneranno più i fantasmi a bastonarci ? – chiese ancora incredulo Bastiano.

“ Me lo hanno garantito  marito mio, in ogni caso c’è sempre san Tortoro a proteggerci – esclamo Cettina, ammiccando segretamente verso la sua figura riflessa sul vetro della finestra.

 

P.S.  In Umbria e specialmente a Terni viene chiamato tortoro un bastone nodoso e intorcigliato, sinonimo di mazziate.

IL GIGANTE BRICIOLA


“ Bella storia la tua, stai diventando bravo, caro Hanid – si complimentò il giovane Pamock – ma troppa guerra e troppo sangue per me.  In fondo siamo bambini, c’è tempo per crescere, anzi qualcuno non cresce mai, come diceva mio nonno Andrik,”

“ In un paese lontano c’era una coppia di sposi che amavano divertirsi, girare per montagne e per valli, ballare ad ogni fiera di paese e ad ogni festa di cui fossero a conoscenza.

Passavano gli anni e loro non si decidevano mai ad avere figli, non ne avevano tempo, dicevano.

Dopo una quindicina d’anni però la moglie si stancò della situazione e mise alle stratte il marito, o avevano un figlio o lei se ne sarebbe andata via.

Così l’uomo capitolò e dopo il giusto periodo nacque loro un bambino biondo e grazioso.

I genitori ne furono felicissimi, specialmente il padre che, dopo una iniziale gelosia, lo vezzeggiò e lo riempì di mille carezze affettuose.

Gli pareva tanto piccolo e delicato che iniziò a chiamarlo “  mia piccola briciola “.

Il soprannome Briciola rimase al bambino, che poppava con grande appetito e cresceva a vista d’occhio.

Con il passare dei mesi e degli anni diventava sempre più grande e grosso, a un anno ne mostrava tre, a tre il doppio, a nove era grande e forte come un uomo adulto.

Il padre ne era orgoglioso, lo riempiva sempre di coccole come fosse sempre un infante, tanto che quando si mettevano a tavola per pranzo e cena Briciola andava sempre a sedersi sulle ginocchia del suo papà.

Più il padre invecchiava, più il piccolo gigante si ingrossava, ormai erano necessarie della sedie speciali, con ampi e robusti braccioli, altrimenti quel bebè avrebbe schiacciato il suo papà.

A vent’anni il gigante Briciola era alto più di tre metri, pesava oltre due quintali, aveva braccia come prosciutti, ma a tavola voleva sempre andare in braccio al suo papà, che era assiso, anzi imprigionato in una speciale robusta sedia di ferro, con travi di rinforzo.

Però il gigante Briciola, se cresceva di peso e di altezza, si riteneva sempre un bambino, amava giocare e si riteneva troppo giovane per dover studiare o lavorare.

Mangiava calderoni di riso, mezze pecore arrosto, prosciutti interi, trincava botti di vino, era l’orgoglio del suo papà, ormai tutti i parenti si tassavano per mantenere  quel portento.

Passarono altri anni, il gigante Briciola era sempre più grande ed affamato, ben dodici paesi intorno fornivano il cibo per la sua mensa, che era davvero assai curiosa, un’impalcatura possente di travi e ferri, con una porticina in basso, in cui all’ora dei pasti entrava un vecchietto dai capelli bianchi, il papà affettuoso che doveva tenere in braccio il suo figliolo.

Con gli anni il mantenere quel gigantesco bambinone costava la metà delle entrate della nazione e il governatore promise un premio e la mano della figlia a chi avesse trovato un rimedio.”

“ Tu cosa avresti fatto, amico mio ? – chiese il biondo Pamock.

“ Non so, avrei preparato un esercito per dare battaglia – azzardò dubbioso Hanid – cosa diceva tuo nonno A.?”

“ Il nonno morì prima di finire la storia, anch’io vorrei trovare una soluzione”

“ Semplicissimo ! – strillò una vocetta femminile al di là del rugginoso cancello.

I due bambini si alzarono di scatto stupiti e videro davanti a loro, oltre le sbarre una vispa ragazzina, dai capelli rosso fuoco, con maglietta e pantaloni macchiati, che li guardava con occhi arguti e sorridenti.

“ E tu chi sei e cosa ci fai qui ? – chiesero in coro Pamock e Hanid.

“ Mi chiamo Aurora, abito qui vicino e da qualche tempo vi ho sentito parlare e raccontare delle storie, mi sono piaciute, anche se voi maschietti siete leggermente noiosi, guerre, battaglie, gesti commoventi e piagnosi, ma non sapete ridere ?”

“ Saputella dal nome buffo, dai tu una soluzione e raccontaci delle tue storie”

“ Se trovate buffo il mio nome vi dirò pure che in realtà mi hanno chiamato Aurora Del Sol Dell’Avvenire – fece la ragazzina con l’aria saputa da maestrina –in quanto poi il famoso gigante Briciola l’avrei convinto che doveva cercare una bellissima regina, rosea e bionda, grande e grossa come lui, che abitava al di là del mare e che lo voleva come marito,  che portava in dote mandrie di mucche, allevamenti di maiali, greggi di pecore  e innumerevoli cantine ripiene di vino e birra. Naturalmente avrei imbarcato verso l’ignoto anche il suo affettuoso papà, che se lo gustasse fino alla fine ! Di tasse ne paghiamo già abbastanza !”

“ In realtà la soluzione per i giganti non c’è mai stata, si sposano, fanno altri giganti e si fanno sempre mantenere dalla povera gente. Ne cambi uno e ne arriva un altro più affamato che mai. Ma ora vi racconterò qualcosa di più piacevole, le storie di Bastiano e Cettina . “

HANID E LA CORSA SFRENATA DEI CAMMELLI ( fine )


Ad un tratto gli si presentò uno spiritello del deserto, un Ginn, una delle misteriose ed etere creature che molto possono fare per uomini ed animali.

Aveva ascoltato i lamenti dell’animale e lo consolò con queste parole :

“Al Marid, a tua ora non è ancora venuta, sii forte e paziente, nessuno può sapere cosa gli riserva il futuro, siamo nelle mani del Potente, del Misericordioso, di cui non mi è lecito fare il nome, aspetta e abbi fede, ritorna al tuo lavoro, verrà il giorno della ricompensa e della gloria “

Il cammello ringraziò il Ginn e più confortato riprese la via del ritorno al suo caravanserraglio.

Trascorsero veloci i giorni, i mesi, gli anni e la fama e le prodezze del giovane guerriero suscitarono entusiasmo nelle folle, numerosi furono i suoi seguaci, più ampie le sue conquiste.

Il cavallo Al Sarì ebbe preziose bardature d’oro e di seta, anche se qualche ferita segnava ormai il suo lucido manto.

Un giorno il giovane condottiero sbaragliò il nemico in un’importante battaglia e lo inseguì implacabile per pianure e il deserto, ma le fatiche e la sete decimarono la sua cavalleria e persino il veloce Al Sarì cadde stremato a terra.

Il condottiero era furente, vedeva allontanarsi verso la salvezza il residuo manipolo di nemici, con quel re arrogante che prima l’aveva minacciato.

Poi notò il gruppo di cammelli che lo seguivano a breve distanza, deciso e rapido fermò il primo animale, tagliò le corde che legavano i bagagli, vi montò sopra, ordinò ai suoi fedeli di fare altrettanto, si chinò all’orecchio di Al Marid e gli sussurrò :

“ Ora a te cammello tocca mostrare il tuo valore, se mai lo possiedi !”

Il giovane animale si erse in tutta la sua possanza e si lanciò furiosamente all’inseguimento del nemico, veloce e instancabile, per giorni condusse il suo padrone in ogni luogo, per quanto lontano e inaccessibile fosse, fino a quando tutta la regione fu vinta e pacificata.

Ora nelle parate d’onore si poteva vedere il giovane califfo che montava uno splendido cavallo bianco, dal nome Al Abyad, maestoso e borioso più che mai, seguito subito dopo dal cammello Al Marid, che portava una sella di prezioso cuoio intarsiata, in cui era inciso il suo nome a caratteri d’argento massiccio, con appese lo scudo, la scimitarra e la lancia usati nella famosa vittoria.

Si muoveva con andatura sicura ma modesta Al Marid, lui e il suo padrone conoscevano l’ardimento e il valore tenace, agli altri il merito o la paura di scoprirlo”.

“E che fine fece il cavallo Al Sarì ?- domandò incuriosito il giovane Pamock.

“ Ah lui riposava ormai nelle scuderie del califfo, smagrito e stretto da fasciature che curavano le sue ferite, ma non era affatto triste, impegnato com’era a raccontare ai giovani puledri che gli erano vicini le sue eroiche battaglie, con sempre nuovi e roboanti particolari.

Era un uditorio giovane e ancora attento, a breve sarebbero stati sostituiti da nuove leve, Al Sarì non avrebbe fatto in tempo ad annoiarli.”

Hanid finì la sua storia e confessò : “ Sai Pamock, quando mi sento molto solo e depresso mi metto là, in quell’angolo di muro, appoggio l’orecchio ai mattoni scrostati e ascolto il rombo degli zoccoli dei cammelli in corsa sfrenata, loro verranno un giorno a liberarmi da questo recinto, per portarmi via da qui, lontano, nel deserto infinito.”

HANID E LA CORSA SFRENATA DEI CAMMELLI ( 1°)


Nell’afoso pomeriggio di quel triste cortile, con un cielo plumbeo e opprimente, si percepiva un senso soffocante di attesa, ognuno agognava l’arrivo di un temporale liberatorio, che avrebbe portato una sferzata di frescura.

I due bambini, poveri uccellini migranti in un precario rifugio, si accucciarono nel loro angolo preferito, vicino al vecchio cancello dalle sbarre arrugginite, dove si poteva godere un lieve refolo d’aria.

Hanid, che aveva apprezzato con poche cortesi parole il racconto del maialino Ciuffetto che aveva narrato il suo amico Pamock, era imbarazzato dal fatto di non poter far notare che quell’animale impuro lo disgustava, quindi si lanciò subito in una avventurosa storia che ricordava di aver udito nel suo povero villaggio al di là del mare.

“ Devi sapere, caro amico,  che in tempi lontani noi avevamo condottieri e califfi coraggiosi e temerari, combattenti eroici che misero in fuga eserciti ben più grandi di loro, armati solo della loro fede e del loro valore.

Uno di questi, uno dei  più grandi, aveva all’inizio solo un piccolo gruppo di fedeli seguaci, pochi cavalli e cammelli, ma con questi fondò un impero così grande da far tremare re e imperatori.

Nelle battaglie cavalcava il suo cavallo preferito, un animale agile e scattante chiamato Al Sarì.

Il miglior foraggio e un secchio di fresca acqua di rose era preparato solo per lui, alla notte nel caravanserraglio veniva premurosamente coperto da un mantello prezioso.

Poco discosto da lui di solito riposava un giovane cammello, adibito al trasporto di pesanti carichi di armi e vettovaglie, chiamato Al Marid.

Stando spesso vicini, nelle lunghe notti stellate il cavallo amava raccontare senza tregua all’animale che gli era accanto le prodezze del suo padrone, di come questi lo accarezzasse e lo premiasse con verdure dolci e gustose, di come talvolta gli confidasse i piani futuri di gloriose imprese che si proponeva di iniziare.

Spesso Al Sarì si infervorava nel suo raccontare e diventava sempre più arrogante e sentenzioso, affermava di essere ormai sicuro della grande fama che avrebbe acquisito con le prodezze del suo padrone.

Anzi, le prossime conquiste avrebbero dovuto essere attribuite in gran parte alla sua forza e alla sua velocità, pertanto riteneva che per riconoscenza in futuro il condottiero avrebbe dovuto nominarlo Cadì in qualche ricca regione, con l’omaggio di un nutrito harem di giovani puledre.

Le notti stellate erano ormai diventate lunghe e noiose per il povero cammello Al Marid, che si sentiva altrettanto forte ed intrepido del borioso vicino, ma doveva continuare ogni giorno a portare solo pesanti carichi ed essere pungolato da un rude cammelliere.

Una notte non riuscì più a sopportare lo strazio di quei vaneggiamenti vanitosi, diede uno strappo al paletto che lo legava e fuggì via dal caravanserraglio, verso il deserto, girando senza meta, fino a fermarsi vicino ad una pozza d’acqua, dove si abbeverò e piangendo si lamentò, rivolto alla luna e alle stelle, della sua triste esistenza.

DINO E CIUFFETTO ( fine )


Così, passata la mezzanotte, i due malvagi indossarono dei vecchi lenzuoli, ne fecero dei buchi per gli occhi, presero un grosso bastone, una lunga catena di ferro e con due piccole lanterne si recarono silenziosi alla casupola solitaria per sorprendere i due dormienti.

Spalancarono silenziosi la porta e subito iniziarono a battere il bastone contro i muri, a scuotere la catena, ululando e emettendo grida e gemiti agghiaccianti, che terrorizzarono i due malcapitati.

“ Siamo fantasmi dannati!- urlò l’oste con voce roca – dacci tutto l’oro che possiedi o ti trascineremo nell’inferno !”

“ Ma quella era l’ultima moneta che avevo – gemette Dino battendo i denti dalla paura – do… domani qua… quando l’oste mi darà il resto vi darò tutto, giuro, non ho più niente !”

I due figuri frugarono rabbiosamente tra i vestiti e nel suo fagotto, ma non trovarono un soldo.

Infuriati gridarono “ Allora ci prenderemo questo maialino e lo faremo arrosto !”

Il povero Dino era quasi morto dalla paura, anzi, con rispetto parlando, se l’era fatta sotto, ma quando il grosso fantasma afferrò il tornito cosciotto del suo amico di sventura, qualcosa esplose in lui come una bomba, gli si buttò contro lanciando calci furiosi, mentre Ciuffetto si rigirò morsicando scatenato l’altro preteso fantasma.

Con urla di dolore le due bianche figure scapparono fuori nella notte, lasciando vincitori sul campo i due amici.

“ Squitt, squitt, sei stato molto coraggioso Dino, sei un vero eroe – grufolò Ciuffetto dando una leccatina amorosa al suo salvatore – ma per prudenza è meglio nascondersi in qualche lontano pagliaio”.

Pertanto si allontanarono da quel posto ostile e quando il mattino seguente si svegliarono nel loro nuovo rifugio il piccolo Dino disse “ Ahimè, ora siamo senza soldi e senza cibo, come faremo ?”

Ma il porcellino rispose “ Squitt, squitt, ci penso io “

Corse nel campo vicino, annusò in giro, scavò e tornò con alcune grosse patate.

Così, acceso un focherello e messi i tuberi sotto la cenere i due amici ebbero il loro rustico pranzetto.

Dino e Ciuffetto fecero molta strada nei giorni seguenti, stando lontano dagli abitati, mangiando mele e patate, bevendo ai ruscelli e dormendo nei fienili.

Ma non poteva durare questa semplice dura vita vagabonda, il bambino cominciava a soffrirne, così, mentre si riposavano ai margini di un bosco, il maialino grugnì deciso “ Squitt, squitt, fermati qui, ho un’idea !”

Veloce si allontanò tra gli alberi, annusando rumorosamente, scavando buchette qua e là, tornando alla fine con in bocca alcuni sassi nerastri che emanavano un odore pungente ed acuto.

“ Uhm, ma queste patate puzzano, sono marce, Ciuffetto !”

“ Sgrunf, sgrunf, padroncino sei un somaro a due gambe ! Questi sono pregiatissimi tartufi, li venderai al mercato e farai molti soldi, squitt, squitt !”

Infatti quando si recarono in città, con quelle curiose patate puzzolenti stranamente il piccolo Dino guadagnò delle belle monete d’oro, e così mangiarono come dei re, poi si comprò un vestito e delle scarpe nuove per lui , una spazzola di madreperla e un guinzaglietto rosso di cuoio per il fedele amico .

Il bambino imparò velocemente molte cose in quei giorni : a controllare la sua paura, a lavorare per guadagnarsi da vivere, ad essere generoso, ma a riconoscere il valore dei soldi.

Era diventato adulto in fretta, però gli mancava qualcosa a cui non sapeva dare il nome.

Un giorno mentre passava per una via che conduceva al mercato, vide dietro uno steccato di una villetta un gruppo di tre bambini che giocavano felici, si fermò a guardarli ammirato e incuriosito.

Dalla porta di casa uscì un giovane mamma, magrolina e con un buffo caschetto di capelli rossi, gli sorrise gentilmente e gli chiese “Vuoi entrare, ho appena preparato un bella torta al cioccolato per i miei bambini, vuoi favorire ?”

Dino si girò ad interrogare con lo sguardo il suo maialino, ma la mamma capì e aggiunse che aveva anche delle belle pannocchie di granoturco per il suo amico.

Così i due entrarono in quel giardino per la merenda che veniva loro offerta, ma tutti furono così amorevoli e gentili che si fermarono per la notte, poi anche la seguente, poi diventarono come dei figli e Dino trovò nuovi amici, anzi veri fratelli con cui giocare, litigare, ma soprattutto imparare insieme le cose semplici e giuste della vita.

Anche il riccioluto maialino fu ben accettato in famiglia, a parte qualche conflitto di idee con la rossa mammina che si costringeva a sofferenti diete, cosa che faceva grugnire a Ciuffetto “ Sgrunt, sgrunt, cicciottello è sempre bello mia cara, squitt, squitt !”, ma per Natale ebbe in regalo una rosea maialina con cui stare in compagnia ed allevare ben presto una numerosa e turbolente figliolanza.

Passato qualche tempo il buon Dino rimandò ai genitori le monete d’oro che aveva ricevuto, scrivendo in un biglietto che aveva alla fine scoperto due tesori : l’amore di una mamma e l’amicizia che bambini e animali ti possono dare.