Il vino Moscato Bianco, dal colore tenuamente paglierino, ha un sapore deliziosamente intenso, dolce, aromatico, con un nome, un’aurea, forse retrò, ma per me inconfondibile, da assaporare a piccoli sorsi golosi, lentamente, concentrati, con la mente aperta ad ogni fantasia e suggestione.
Mi ha fatto molto piacere che ad una mia lettrice, due volte teneramente mamma, questo vino susciti commossi ricordi di suo nonno, ben vivo nella sua memoria, quindi ancora presente tra noi.
Personalmente quel gusto raro, amabile, zuccherino del vino Moscato, le cui gocce mielose sembrano trattenere i ricordi dei momenti felici in cui lo si è gustato, mi fa tornare ai tempi dei miei vent’anni, quando si girovagava per tutta la notte a Milano, lungo i Navigli e soprattutto per Corso Garibaldi, in visita pastorale etilica tra i vari bar e osterie, in compagnia dei tanti amici di allora, incontrandone talvolta di nuovi in ogni locale, discutendo, ridendo, proclamando le proprie brillanti idee, elaborando piani rivoluzionari e arditi, che avrebbero migliorato la nostra società, che sarebbero poi sfumati e irrisi negli anni seguenti.
Vi era in quell’animato corso milanese una piccola enoteca, il bar Moscatelli credo, in cui il bizzarro oste imponeva ai giovani avventori, come un maestro paziente e perseverante, la degustazione di calici del suo prezioso Moscato.
Noi giovani, ingordi nelle parole come nelle bevute, affrettati, ilari ed incoscienti, scoprivamo in tal modo in quello stretto locale, con tre tavolini e il lucido bancone di acciaio, un inaspettato momento di pausa, di amabile riflessione, persi come in ascolto di una nuova fascinosa armonia.
Molto più tardi, ormai padre di due bambini, ho conosciuto un gentile signore piemontese, originario dell’alto Monferrato, i cui figli erano compagni di scuola dei miei.
E’ nata tra noi un’amicizia radicata e profonda, fatta di stima e di poche parole, i piemontesi, si sa, hanno un loro modo schivo e quasi timoroso di mostrare i propri sentimenti.
Questo signore alto, dinoccolato e magro, con un sorriso gentile e triste, che mi ricordava Yves Montand, si occupava di auto, ma aveva avuto in eredità dal padre una bella vigna, che cercava di curare con passione, lassù tra quelle arrotondate colline che schermavano la vista del Po.
Lunghi filari di viti, in una zona sempre più abbandonate all’incuria; l’agricoltura non dà pane e richiede continue fatiche.
Amavo andarlo a trovare anche lassù, nella sua casetta annegata tra le vigne, cercavo di essere presente alla vendemmia, eseguita personalmente insieme ad altri pochi amici.
Era una festa antica del lavoro, la schiena piegata a raccogliere i grossi grappoli d’uva, i secchi scaricati nelle profonde gerle a spalla, il bigoncio trainato dal trattore, l’accompagnamento al magazzino, dove la diraspatrice sbranava, torceva, incanalava il mosto torbido negli alti tini di vetroresina, spandendo intorno un profumo intenso che inebriava.
A parte si raccoglievano con delicatezza i grappoli di Moscato, si posavano in una bassa tinozza, si pestavano con i piedi e il mosto veniva versato nella grande damigiana attraverso larghi imbuti dotati di filtri di carta.
Il Moscato andava curato con amorevole attenzione, come se fosse un prezioso Champagne.
Le poche bottiglie ottenute erano una prelibatezza da far gustare alla sua vecchia madre, non dimenticando noi amici.
Il tempo è passato, lei, persino lui, ormai non ci sono più, se non nel piccolo cimitero di quel paesetto solo, perso tra le colline.
Ma per me non sono assenti, no, assolutamente.
Talvolta mi capita di annusare un calice di Moscato, la sua fragranza sembra evocarli magicamente dai ricordi del passato.
Assaporo quel vino delizioso a piccoli sorsi, con tranquillità e attenzione, vi assicuro che allora riesco ancora ascoltare le loro voci, li sento vicino a me, in un tremolio di ricordi che non avrà mai fine.
Se ora, mentre scrivo queste poche righe, mi si inumidiscono stupidamente gli occhi non mi importa, non mi vergogno per niente, agli anziani come ai bambini non puoi vietare di piangere facilmente.
Ciao Renato.
sono sempre laroby bimamma…grazie per la monografia sul moscato:condivido ogni parola sull’arte del degustarlo! Solo una piccola precisazione: il moscato mi ha ricordato il mio nonno Ernesto: per fortuna il mio super papa’ che e’ anche un meraviglioso nonno giocherellone e’ ancora vivo e vegeto (e sfruttato dai nipoti) se sapesse di questo qui pro quo farebbe tutti gli scongiuri del caso!…sai com’e’!!!
un abbraccio
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Scusa cara bimamma, gli anziani ,oltre a commuoversi , leggono male, quindi sentite scuse, ora correggo, il nonno era tuo e non dei piccoli. Meglio così, lunga vita e un brindisi alla sua salute.
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Piangere ed emozionarsi e’ una dote dei forti. Non tutti ne sono capaci e ben pochi lo ammettono in pubblico.
Renato e’ vivo nei nostri cuori e negli occhi dei figli, a me particolarmente a cuore la piu piccola.
Anche il vino fa parte della nostra vita, da quando aiutavo nonno talpone a infiascare il vino in cantina alla tenera età di 5 anni – o forse prima? .. Ovviamente munito del mio bicchiere di plastica arancione. Si sa, certe cose si devono assaggiare..
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Mio papà ci ha sempre provato, a farmi assaggiare il vino, ma sono sempre stata assai poco propensa. Però capivo perfettamente il sapore, e questo lo rendeva felice. Mi hai fatto venire in mente l’imbottigliamento in cantina… a me quello che piaceva di più era la macchina dei tappi, che infilava i tappi di sughero nelle bottiglie. Il mio papà adesso è più vecchietto, ma il vino c’è sempre. Negli anni ha fatto persino un corso per sommelier… e tutto il parentado lo ritiene un’autorità in materia!
Un caro saluto nonno Talpone,
Paola
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Grazie,grazie per l omaggio al papa’ e alla nonna,grazie per non dimenticare,grazie per farmi vivere forti emozioni e grazie per commuoverti con me….grazie per avermi ricordato che talvolta,togliere la corazza fa star bene……e seguendo il tuo esempio trovo la forza di pronunciare 1 parola a me tanto carA e che mi manca tantissimo:papa’….grazie nonno talpone,martello deus…….sei sempre nel mio cuore!
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