Non abitiamo in un castello sprofondato nella brughiera scozzese, né in un rudere campestre, ma a Milano, in una posizione centrale ormai, la periferia di quando ero bambino si è volatizzata con i ricordi di quegli anni perduti.
Nelle nostre stanze mia moglie ed io abbiamo accumulato negli anni una quantità inverosibile di libri, quadri, ammeniccoli vari e cornici di fotografie, come il salotto di nonna Speranza, a cui si aggiungono ancora altri libri, riviste, foto, disegni infantili dei vari nipotini.
È una casa vissuta, direi, piacevole da abitarci e condividere con amici e conoscenti, una cornice rilassante per pranzi saporiti della cucina umbra e abbondanti libagioni dei vari tipi di vino, risaliti dalla cantina, vero tesoro di Alì Babà.
Ma talvolta alla sera, rilassati in poltrona, l’occhio scruta un oggetto, come il lampadario di ottone dorato della sala, allora compare il volto emaciato di mia madre, ormai morente, che lo guardava ammirata, era il simbolo della casa finalmente riscattata e libera dalla coabitazione forzata del dopoguerra.
Ancora, certe volte è il quadro di un ignoto pittore lombardo che mostra una vecchia, seduta nella vuota cucina di una masseria, che nutre i polli ai suoi piedi.
Da bambino mi sembrava che quegli animali si muovessero e che potessero scendere dalla parete per beccare frenetici anche sul pavimento vicino a me.
Anche quel grosso volume illustrato da Gustave Doré per l’Orlando Furioso mi fa ancora sognare cavalieri ed eroici duelli.
Ora persino un riflesso di luce sul cuscino della sedia messa sotto il tavolo della cucina rivela il musetto del nostro gatto lontano.
Altri oggetti, tanti in verità, mostrano visi, gesti, figure che non esistono più, se non nella nostra mente, ma che si rivelano per un attimo anche ai nostri occhi.
Infedeli alla realtà, forse, ma che ci accompagnano nei nostri giorni.