Sono giorni che mi ossessiona con la ripetuta richiesta di pubblicare una sua innovativa ricetta culinaria, così almeno lui la definisce, mi chiedo “ Ma perché uno non può vivere la sua ipotetica tranquilla vita da pensionato ?”
“ E chi ti dice che un anziano sia tranquillo – sbotta subito lui, il famigerato nonno Talpone – per mia esperienza e secondo quanto segretamente ammettono i coetanei che frequento non c’è periodo della nostra vita così internamente agitato, forse paragonabile a quello della pubertà, sarà anche dovuto alla consapevole vicinanza alla morte e al fatto di avere solo ricordi e nessuna prospettiva decente.
Ma dobbiamo tenere tutto dentro di noi, altrimenti ci chiamano lagnosi, monotoni, ripetitivi e insopportabili.
Così dobbiamo nascondere tutte le nostre paure e angosce, dobbiamo ridere spruzzare intorno giovialità e saggezza.
Magari fare i buffoni, mai i piagnoni !”
Non mi aspettavo tanta amarezza, così lo prego subito di dettarmi il suo pezzo, sperando che non sia di umore tetro, gli eventuali lettori vogliono rilassarsi e sorridere, di vecchi scemi ne hanno già abbastanza.
“ Dunque, come ti ripetevo da giorni – inizia rabbonito nonno Talpone – ho avuto una tale quantità di richieste della ricetta del mio “ Sugo bel sorriso “ da parte della decina di miei fedeli lettori, peraltro in continuo e crescente declino, da essere costretto a svelare questo mio prezioso segreto culinario.
E’ un sugo di pomodoro multiforme e gustoso, che riesce ad insaporire e arricchire ogni piatto di riso o di pasta che vorrete assaporare.
La preparazione è invero semplice e veloce, alla portata anche dei meno esperti.
INGREDIENTI
Un barattolo di vetro, tipo Bormioli, contenente del buon pomodoro, meglio se di preparazione casareccia come quello lasciatomi dalla moglie, alla peggio ci si può contentare anche di un contenitore di pomodoro industriale.
TEMPI DI PREPARAZIONE
Secondo l’occasione e le condizioni trovate.
PROCEDIMENTO
Personalmente, dopo aver bruciato il sugo e il pentolino dove stava cuocendo, buttato via il tutto e arieggiata la casa dal fumo nero che la invadeva, sono corso da mia cognata, la benemerita Paperoga di Terni, ma nel vostro caso è doveroso recarvi da una parente, un’amica, una conoscente molto brava in cucina, presentarvi con aria disfatta e lacrimosa e, sorridendo umili e gentili, porgere loro il vostro barattolo di vetro con il pomodoro a pezzi, come il vostro doloroso aspetto.
Il risultato dovrebbe essere remunerativo e confortante : dopo un paio d’ore, magari dopo aver consumato un lauto pranzo se vi siete presentati ad un’ora opportuna, si può ritornare a casa con il vostro barattolo ricolmo di ottimo sugo fumante da utilizzare per i vostri pasti solitari.
Occorre aver sempre fede nel prossimo – conclude nonno Talpone in tono inspirato e profetico – e ricordatevi un’opportuna rotazione dei benefattori a cui volete rivolgervi !”
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BASTONATE AMOROSE
“ Sai, ieri sera è morta la D. Era stata ricoverata in ospedale perché il suo tumore era così diffuso che non riusciva a respirare, ma non ce l’ha fatta, si è spenta subito. “
La notizia mi colpisce e mi fa male, da poche settimane eravamo stati messi a conoscenza del suo stato critico, un male insorto qualche anno fa, trascurato e nascosto, per vergogna, come se il tumore, “ Il brutto male “ fosse una colpa, un’azione malvagia che si compie, mentre invece la si subisce.
Male trascurato, perché la D. era una donna dolce, che aveva rifiutato di diventare parte di una coppia, per gioire e affrontare la vita con una persona amata.
La sua l’ha dedicata alla famiglia della sorella e dei suoi figli, come zia e come seconda mamma.
Una figura originale ai nostri giorni, tanto da voler continuare ad insegnare a scuola fino al limite d’età, mentre quelli vicino a lei avevano scelto la scorciatoia delle pensioni baby, trentenni ma con un vitalizio non esagerato ma facile.
Lei aveva pensato che le cure per la sua malattia potevano aspettare qualche mese, anche un anno, vi era la scuola e gli esami delle nipoti da seguire.
Addio esile e serena fanciulla, perché tale ti ricordo con tristezza.
Sono sempre i migliori che muoiono prima.
Questo detto comune mi appare ancora una volta sconvolgente.
Ma le tante carogne che conosco non muoiono mai ?
E’ stato il pensiero di un attimo mentre sono ancora al telefono e in tono affannato mi rivolgo alla mia Istrice Amorosa.
“ Ma tu come stai ? Tutto bene lì a Milano ?”
“ Benissimo perché ?”
“ Sono preoccupato, tu sei troppo buona e generosa, dovresti cambiare, che so, diventare acida e cattiva, sai camperesti di più, non voglio perderti. “
“ Se vuoi quando ritorni a Milano ti prendo a bastonate ! – è stata la sua serafica risposta.
“ Va bene amore mio, ma vorrei solo che fossero bastonate amorose. “
LA MAGIA DEL SABATO SERA
Il sabato sera ha in sé una certa magia, in fondo è un’implicita promessa di festa, di divertimento, di baldoria.
Poi passano gli anni e purtroppo le serate folli dei vent’anni, quelle passate in compagnia di un’incredibile numero di conoscenti e di amici, si riducono ormai a qualche cena in casa di uno o dell’altro, ad un film visto in coppia nel vicino cinema o a una tranquilla serata a casa propria, minestrina e televisione.
Questo sabato sera mi pareva vagamente che ci fosse in previsione una trattoria fuori porta a mangiar le rane e quindi non mi sono stupito quando alle sette ho visto mia moglie che si era cambiata l’abito e si truccava.
“ Quindi andiamo fuori a degustare le rane? – ho chiesto, alzandomi pigramente dalla poltrona con un libro tra le mani.
“ No, vado a teatro con quattro amiche , quelle di ginnastica, non ti ricordi?
Ma già, tu in palestra ormai ci vieni poco o niente.
Ti avevo anche detto che la cena delle rane ci sarà la prossima settimana, se c’è brutto tempo, altrimenti andremo a Casina d’Emilia con i nostri amici , il chirurgo e la moglie.
Non farmi ripetere sempre le stesse cose, guarda che è anche scritto sul calendario in cucina. – fa lei infastidita – Ti ho lasciato il minestrone e il bollito con i nervetti in frigo, io torno prima delle undici.”
L’abitudine di scribacchiare su quel calendario color paglia della famiglia meneghina, appeso sull’uscio dello sgabuzzino, nascosto dietro la porta della cucina, è una calamità costante che non capirò mai.
Abbiamo già il grosso frigorifero nascosto da decine di foglietti, poster e gualciti volantini, fermati fortunosamente da piccole calamite colorate, che occorre acquistare ad ogni viaggio, mostra o negozietto.
Tutte le pareti piastrellate invece sono oscurate da disegnini, acquarelli, foglietti di ogni forma e colore ricoperti da schizzi e artistici sgorbi prodotti degli amati nipotini.
La nostra cucina ricorda quei corridoi d’università con tabelloni in cui si mescolano confusamente proclami, disposizioni, offerte di corsi di yoga e di meditazione zen, proposte di scambi di libri e oggetti di ogni specie.
Quindi le decise affermazioni di mia moglie mi fanno rimanere piuttosto male, la carenza di memoria è sempre una cosa vergognosa, come la sordità senile o la dentiera che ti balla in bocca.
“ Me ne andrò fuori al ristorante –ho subito risposto indispettito, con un’aria di dignità offesa.
Così lei è uscita con una scia di profumo e io con un paio di vecchi pantaloni di fustagno e un corto gilet di piumino, determinato e altezzoso.
Sceso sotto casa nel buio umido della strada, ho lasciato che i piedi mi portassero avanti con un passo frettoloso verso una meta, di cui non avevo la minima idea.
Più tardi mi sono ritrovato tra le vie della periferia di Lambrate, in viali quasi deserti, con fari delle auto che schizzavano via intorno a me, tra una nebbiolina maleodorante e un’oscurità rotta ogni tanto da insegne di negozi chiusi e bar deserti in cui venivano calate le saracinesche.
Finalmente è apparsa la salvezza: un ristorante pizzeria arabo, con le vetrate opache ma luminescenti.
Una volta entrato mi sono ritrovato in mezzo a una lunga fila di persone di mezz’età che attendevano pazientemente di ritirare i cartoni di pizza da portare a casa, oltre loro si intravedeva uno stanzone con una decina di tavoli con tovaglie di plastica, su cui galleggiavano alcuni cestini di vimini con fette di pane, solitari mini confezioni di grissini, dei gruppi di olio-aceto-sale-pepe in metallo scrostato e qualche bicchiere con fiorellini di plastica opaca.
Mi hanno trovato un posto al tavolo degli avventori solitari, con un vicino che dormiva con la testa appoggiata al muro, davanti ad un piatto sporco di avanzi.
Ho ordinato in fretta un piatto di spaghetti alle vongole, che mi sono stati portati dopo tre minuti, insieme ad un quartino di vino acidulo.
La pasta tiepida sguazzava in un brodo abbondante con qualche vongola mestamente adagiata nel groviglio degli spaghetti.
Ho avuto anche l’incoscienza di ordinare in seguito una pizza, dal curioso nome che gli veniva dato nel menù plastificato che mi avevano portato, “ Mangia e Taci”.
Così ho ubbidientemente consumato in silenzio la mia cena del sabato sera delle meraviglie, di fronte ad un televisore megaschermo in cui si agitavano dietro ad un pallone degli uomini con magliette diversamente colorate.
La fila dei mangiatori di pizza si muoveva lentamente ma mutava poco la tipologia: giovani coppiette male in arnese, anziani sposini con cappotti e sciarponi, un paio di famigliole con piccoli rumorosi e urlanti, che ci passavano vicino e ci scrutavano incuriositi come allo zoo.
“ Mamma perché quel signore pelato ha il cestello del pane se mangia la pizza?”
“ Perché quello là dorme contro il muro, non ha una casa con il letto?”
Sbocconcellata in fretta la mia pizza piccante e oleosa, mi sono alzato, in qualche modo mi ero nutrito, non avevo nemmeno una parete su cui appoggiare la testa, se avessi potuto ignorare il brusio crescente, le risate e i commenti dei clienti che continuavano ad entrare per celebrare nel loro piccolo la festosità del sabato sera.
L’aria fuori era ancora più umida e fredda, le vie ancora più solitarie e cupe, non mi restava che ritornare infreddolito verso casa.
Intanto pensavo a come sia triste il vivere soli, anziani e senza futuro.
Le immagini mentali incalzavano sempre più cupe e frenetiche, quasi assaporavo quell’amarezza rancida del solitario, del reietto, del fallito.
Dopo una mezz’ora mi sono rifugiato a casa, per fortuna la vecchia casa centenaria di mio padre, con i suoi libri, i variopinti quadri alle pareti e il suo disordine creativo mi ha accolto e coccolato.
Due bicchierini di grappa hanno dissolto il freddo e gli incubi.
Poi è ritornata lei, allegra, briosa, cinguettante e chiacchierina.
Ha voluto raccontare minuziosamente la complicata trama della commedia a cui avevano assistito.
Io, ancora con il volto imbronciato, dentro mi sono sciolto e silenziosamente mi sono detto che per essere un pasticcione solitario e permaloso ho avuto l’incredibile fortuna di aver incontrato un piccolo angelo, dalle ali candide come il suo nome.
IL BICCHIERE MEZZO VUOTO
Confesso: sono un pessimista di natura.
Sono fatto così, forse per i problemi che ho avuto nella mia infanzia, i lutti che l’hanno accompagnata, la gioventù problematica, fino all’incontro con la mia Dulcinea del Toboso.
Una vera fata che mi accompagna e mi sopporta sin da allora.
Lei è un’ottimista, anche se ha avuto un’infanzia di sofferenza e di lotta molto peggiore della mia, è socievole con tutti, disponibile, realista ed efficiente di fronte a ogni problema.
Dice sempre “ la vita è bella, bisogna goderla” e intanto lavora, corre, si impegna, si fa coinvolgere da tutto e tutti, sempre in movimento come un’ape laboriosa.
Lei è quella bel bicchiere sempre mezzo pieno, io quello del mezzo vuoto, anzi proprio vuoto.
Forse per questo siamo compatibili.
Questo non vuol dire che io sia sempre a piangere su me stesso, è solo un atteggiamento di fondo che uno ha e che deve solo imparare a conviverci, magari riderci sopra.
Un esempio minore di questa insicurezza si manifesta quando parto per il solito viaggetto a Terni o a Londra.
Entro in agitazione, non dormo bene la notte precedente il viaggio, compilo lunghe liste di oggetti da portare, liste che poi perdo o dimentico da qualche parte.
Le ultime due ore prima della partenza è un continuo aprire e chiudere lo zaino ( il mio strumento di viaggio preferito ) o la valigia.
Avrò portato abbastanza telefonini, i vari alimentatori, i block-notes, le agende, le penne a sfera e le matite ?
Avrò abbastanza libri per il viaggio o la vacanza ?
Sarà meglio portare due lettori MP3 e due cuffie ?
Un’agitazione nervosa che so ridicola, sembra quella delle smanie della villeggiatura di Goldoni.
Poi ripenso quando vent’anni fa con una borsetta di plastica a tracolla, che adesso conterebbe un portatile, partivo in autostop per girare l’Inghilterra e l’Irlanda, dormendo sul pavimento degli ostelli, mangiando pane e marmellata, quasi senza soldi.
Sorrido a questi ricordi mentre sto completando lo zaino per la partenza di domani.
Decido che sarebbe meglio metterci un altro libro, le due vecchie agende di appunti che ho trovato in libreria e un pacchetto di Daygum.
Lo so già, poi dimenticherò sul tavolo in campagna le chiavi di casa di Milano.